Partiti in 2, oggi sono 15 (pagati da ricercatori). Come nascono i dossier Cgia di Mestre: i numeri sono di tutti, noi sappiamo dove prenderli
Ne sono passati di numeri sotto i ponti da quel dì del 1992 in cui il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, s’inventò “l’Ufficio studi”, centro nevralgico della lotta artigiana contro lo stereotipo del “piccolo evasore del Nordest” che negli anni ha fatto dell’uno-due “comunicato più tabella” un pugno da kappao nello stomaco del Fisco e del governo. La rappresentazione plastica di com’era, e di come sia andata a finire, sta nella sede: erano partiti in due, dentro un ufficio sgarrupato in via Torre Belfredo («Ora ci teniamo i faldoni»), sono diventati una quindicina, per lo più tra i 35 e i 40 anni, all’ultimo piano di una palazzina vetro e acciaio che appena dietro il vecchio edificio brilla di tutta la potenza dell’associazione mandamentale (neppure provinciale) più conosciuta d’Italia. Per dire: l’acronimo Cgia (Confederazione generale italiana artigianato) è diventato un brand talmente celebre nei salotti tivù, che l’associazione si è sempre rifiutata di adoperare le nuove diciture imposte da Confartigianato, difendendo orgogliosamente il suo vezzo passatista.
La prima battaglia fu quella contro la minimum tax di Amato e l’evasione delle società di capitali. L’ultima, di domenica scorsa, è quella sull’ennesima bordata di tasse contenuta (dicono loro) nella nuova Legge di Stabilità. Un comunicato di quattro pagine in grado di mandare in fibrillazione un ministero (quello all’Economia) e in confusione un viceministro (Fassina), di seccare un sottosegretario (Baretta) e far twittare all’impazzata un ministro (Zanonato), oltre che far gridare allo scandalo Galan, Casellati, Capezzone, Carfagna, Bernini, Repetti… «Sono riuscito a dormire comunque», sorride uno dei ragazzi terribili di Bortolussi, Andrea Favaretto, mentre il braccio destro del segretario, Paolo Zabeo, sospira: «Beato te, io non ho chiuso occhio. Siamo stati fino alle dieci in ufficio a ricontrollare le cifre. Per fortuna avevamo ragione». Li chiamano “i ghostbusters del Fisco” o “i piccoli pretoriani anti-tasse“, ma in realtà l’Ufficio studi della Cgia pare più un vascello corsaro che dopo aver preso a bordo economisti e sociologi, politologi, esperti di comunicazione e perfino un ingegnere, veleggia nel mare magnum dei numeri impilati dall’Istat, dall’Ocse, dal Fondo monetario internazionale, dalla Banca d’Italia, dai ministeri.
Enrico Giovannini, quand’era presidente dell’Istat, ebbe di che lamentarsene durante un’audizione parlamentare: «Siamo stanchi che le nostre ricerche vengano decontestualizzate, saccheggiate e rimaneggiate». Ma la Cgia prima para («I numeri sono di tutti, mica solo suoi»), poi si lancia in avanti («Non siamo prestigiatori, le ricerche si basano sulla forza dei dati») e quindi contrattacca: «A differenza dell’Istat noi, i numeri, li facciamo cantare», dice Giovanni Gomiero. Cosa voglia dire lo spiega Zabeo: «Le banche dati sono montagne da scalare. Si deve sapere dove cercare e cosa leggere». I numeri, insomma, vanno interpretati. «Detta così, suona male. Semplicemente noi forniamo una chiave di lettura per comprendere meglio la realtà del momento». Come la Legge di Stabilità. «Esatto. Se lei fa una domanda all’Istat sa quanto ci mettono a risponderle? Sei mesi». La Cgia, invece, fa un comunicato ogni sabato, prêt-à-porter, con i punti chiave già evidenziati in giallo. «Tutti pensano sia stata una grande intuizione, un modo furbo per colmare la penuria di notizie del fine settimana – ammette Zabeo –. In realtà il comunicato del sabato nasce per ragioni assai più banali: la maggior parte degli artigiani compra il giornale alla domenica, più che negli altri giorni».
Ma come si arriva al fatidico report che manda ai matti analisti e grand commis? Ogni mattina si tiene una videoconferenza con il vicino “Centro Studi Sintesi”, poi il giovedì c’è la riunione allargata alla presenza di Bortolussi. L’ispirazione arriva dal dibattito politico, dagli articoli di giornale, dai servizi in tivù «ma soprattutto dall’esperienza dei nostri associati – racconta Zabeo –. Arrivano in segreteria, all’ufficio paghe, all’ufficio ambiente, per lamentare l’aumento, il salasso, l’inghippo burocratico e la loro segnalazione risale tutti i piani del palazzo, passa per gli uffici sindacali e arriva fino a noi, al quinto piano. A quel punto si mettono al lavoro gli esperti, in particolare gli statistici». L’ultimo anello della catena, la testa d’ariete, è Bortolussi. I suoi ragazzi non hanno orari: «Qui non si timbra il cartellino – dice Gomiero – i numeri si affrontano quando escono. Giovedì si sono tenute le audizioni sulla Legge di Stabilità: 4 relazioni di 50 pagine l’una. Ce le siamo lette tutte». La paga, dicono, èpiùomeno quella di un ricercatore universitario: «ci sono contratti a tempo indeterminato e contratti di collaborazione, come dappertutto». Non ci sono strategie politiche, nonostante il noto impegno di Bortolussi che fu assessore nella giunta Cacciari a Venezia e sfidante di Zaia alle ultime Regionali («In vent’anni abbiamo bastonato a destra e a sinistra») e, assicurano, neppure business: «Le ricerche non sono in vendita, l’Ufficio studi si sostiene solo con le quote degli iscritti alla Cgia, che ne hanno capito l’importanza». Ad esempio in occasione della polemica sui 14 euro in più in busta paga. «Letta aveva provato a smentirci in diretta, su La7. Ma anche quella volta avevamo ragione noi».
Fonte: Intervista Corriere del Veneto