La Banca d’Italia, caso piuttosto unico nella storia degli istituti di credito occidentali, è di proprietà delle altre banche – benché per prassi e per legge queste non abbiano alcun diritto di sindacato sulle sue decisioni; le banche, quindi, ne possiedono le quote la cui valutazione, fino all’approvazione del decreto Imu-Bankitalia, era ferma al 1936, anno di costituzione dell’istituto e ammontava a soli 156mila euro.
Ebbene, il decreto n. 133/2013, propone la rivalutazione a 7,5 miliardi, introducendo, inoltre, un tetto del 3% per ciascuna banca. Inizialmente, infatti, le quote erano state suddivise tra miriadi di banche, istituti finanziari e assicurazioni che, con il tempo, sono scomparsi, si sono aggregati, o sono stati acquisiti da altre banche. Quelle più grandi, in Italia, negli anni hanno inglobato numerosi istituti minori acquisendone le quote relative. Il decreto prevede, quindi, che la quota eccedente di quote possa essere direttamente acquistata dalla Banca d’Italia che, nell’arco di tre anni provvederà a rimetterle sul mercato.
In questi giorni, poi, infuria il dibattito su chi ci guadagna. Evidentemente, ci guadagneranno le banche, che beneficeranno di un rafforzamento di capitale, ma anche lo Stato, dalla tassazione una tantum delle plusvalenze.
In tal senso, il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ha tenuto a precisare che non si è trattato affatto di un regalo alle banche ma, anzitutto, di una riforma “ormai urgente in vista dell’entrata in vigore del nuovo sistema unico di supervisione bancaria in ambito europeo” e che non comporterà alcun onore aggiuntivo per le casse dello Stato.