In questi ultimi giorni alcuni quotidiani economici hanno riportato la notizia che i Comuni, le Province e le Regioni hanno impegnato, ma non ancora pagato, ben 137 miliardi di euro. Si tratta di debiti commerciali verso imprese e fornitori che gli Enti territoriali non sono ancora riusciti a saldare a causa dei vincoli imposti dal Patto di stabilità interno e della mancanza di liquidità. In Veneto la cifra ammonta a 8,2 miliardi di euro: 2,7 di spesa corrente, addebitabile in particolar modo a forniture di energia, di riscaldamento, etc, non onorate, e altri 5,5 di spesa in conto capitale riconducibile ad opere pubbliche (o stati di avanzamento delle stesse) non ancora pagate. La Regione Veneto deve alle imprese poco più di 5 miliardi di euro; le sette Province venete hanno un debito di poco superiore al miliardo, mentre i 581 Comuni della nostra regione ne bloccano 2,1. In sintesi, una montagna di soldi accumulatasi negli anni a seguito di fatture emesse per lavori e forniture già eseguite, ma che Regioni ed Enti locali non hanno ancora saldato. Se consideriamo che proprio questa settimana il Parlamento europeo e i Governi nazionali hanno trovato un accordo che sarà ratificato nei prossimi che prevede il rafforzamento ulteriore dei poteri di controllo di Bruxelles sui bilanci dei singoli stati membri, corriamo il rischio, viste le difficoltà di bilancio in cui versa il nostro Paese, che i mancati pagamenti da parte dello Stato, anzichè diminuire, aumentino, con conseguenze catastrofiche per le aziende che lavorano con la Pubblica amministrazione. Risulta evidente che qualsiasi maggioranza che uscirà dalle urne avrà l’obbligo di affrontare da subito questa anomalia tutta italiana. Al fine di smobilizzare le risorse già disponibili diventa urgente, come in più di un’occasione hanno manifestato in questa campagna elettorale quasi tutti i partiti politici, escludere dal rapporto deficit/Pil gli investimenti pubblici produttivi. Inoltre, bisogna definire un piano effettivo di pagamento dei debiti pregressi, che secondo le fonti più autorevoli oscillano tra gli 80 e i 90 miliardi di euro, da concordare con l’Unione europea come misura “una tantum” in modo da non pesare sull’obiettivo del pareggio di bilancio, ponendo altresì fine a quella finzione contabile che, attraverso l’occultamento dei debiti finanziari sotto forma di debiti commerciali, contribuisce a far saltare le imprese. Tuttavia, i problemi non finiscono qui. In materia di Imu c’è un’altra grossa novità che rischia di appesantire ulteriormente il carico fiscale sulle imprese. Da quest’anno il gettito dell’Imu finirà interamente nelle casse dei Comuni, ad eccezione della parte relativa ai capannoni che confluirà in quelle dello Stato. Per quest’ultima tipologia di immobile, i Sindaci potranno trarne un beneficio economico solo per la quota parte che eccede il livello base dell’aliquota, ovvero il 7,6‰. Visto il profondo taglio ai trasferimenti che lo Stato praticherà anche quest’anno nei confronti degli Enti locali, è molto probabile che i Comuni siano indotti ad alzare l’aliquota sui capannoni sopra la soglia del 7,6‰ al fine di controbilanciare le minori entrate provenienti dalle Amministrazioni centrali. Anche alla luce di questo ultimo allarme, appare quanto mai necessario e urgente rivedere il Patto di stabilità interno che rischia, indirettamente, di sfasciare il nostro sistema produttivo.