Era prevedibile: dopo l’immane tragedia che ha colpito la popolazione emiliana, dalla mezzanotte di ieri è scattato l’ormai trito e ritrito aumento di 2 centesimi dell’accisa sui carburanti per fronteggiare i danni causati dal sisma. Insomma, ancora una volta è ritornata la tassa sulle disgrazie che ormai ci “trasciniamo” da quasi ottant’anni. Nel nostro Paese gli aumenti delle accise sono stati frequentemente utilizzati per reperire gettito in relazione ad accadimenti straordinari; però, passata l’emergenza, l’incremento dell’accisa non è mai stato ridotto. Alcuni esempi: 1,90 lire per la guerra di Abissinia del 1935; 14 lire per la crisi di Suez del 1956; 10 lire per il disastro del Vajont del 1963; 10 lire per l’alluvione di Firenze del 1966; 10 lire per il terremoto del Friuli del 1976; 75 lire per il terremoto dell’Irpinia del 1980; 205 lire per la missione in Libano del 1983; 22 lire per la missione in Bosnia del 1996; 0,020 euro per il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004. Solo nel 2011 sono stati ben 4 i provvedimenti di legge che hanno ritoccato all’insù le accise: a gennaio per reperire le risorse necessarie per aiutare la cultura e lo spettacolo; a giugno per gli interventi umanitari a favore degli immigrati; a novembre in favore degli alluvionati della Liguria e della Toscana e, infine, a dicembre con il decreto “Salva Italia”. Ora, nessuno mette in discussione che sia necessario trovare subito delle risorse per portare i primi aiuti alle popolazioni colpite dal terremoto: ci mancherebbe altro. Ciò che mi lascia particolarmente perplesso è che per l’ennesima volta si torna ad aumentare il costo del carburante, nonostante, non più tardi di qualche giorno fa, il Ministro Giarda abbia sostenuto la possibilità di tagliare la spesa pubblica improduttiva per almeno 100 miliardi di euro. Ebbene, non sarebbe più opportuno, anziché agire ancora una volta sulla leva fiscale, mettere mano ai tagli e devolvere una parte di questi risparmi ai terremotati ?

 

Fortunatamente, non ci sono solo cattive notizie. Di fronte a questa tragedia e alle numerosissime vittime che hanno colpito soprattutto i lavoratori emiliani delle piccole imprese, è stato deciso di far slittare il pagamento delle tasse al 30 di settembre, di mettere a disposizione 2,5 miliardi di euro per attivare i primi interventi, di consentire ai Comuni colpiti dalla calamità di spendere per la ricostruzione, evitando così i vincoli del patto di stabilità e di estendere lo stato di emergenza anche a tutta la provincia di Rovigo. Quest’ultima, non solo ha subito ingenti danni al patrimonio immobiliare, ma probabilmente subirà, visto il sistema delle relazioni storiche e culturali molto integrato con le province di Modena e di Ferrara, ricadute economiche molto pesanti. Ma il dramma delle morti avvenute a seguito del crollo dei capannoni, è una di quelle tragedie che difficilmente possiamo accettare. Chiaramente sarà la magistratura ad appurare le eventuali responsabilità penali, tuttavia non possiamo soprassedere sul fatto che manufatti costruiti in tempi recentissimi si siano accartocciati su se stessi. Come nel Veneto, anche l’Emilia è terra di piccole imprese, di distretti industriali, di artigiani e di agricoltori che con il loro lavoro e i loro prodotti hanno conquistato i mercati di tutto il mondo. Stando alle prime segnalazioni che giungono dai sindacati e dalle associazioni di categoria, si registrano 3.500 aziende chiuse e 20.000 persone senza posto di lavoro. I tempi necessari per ripristinare la piena operatività di queste aziende potrebbero oscillare tra i 3 e i 4 mesi. Un arco temporale eccessivo che rischia di spingerle fuori mercato. Sono crollate le imprese, adesso dobbiamo risollevare l’economia di una parte importante del Nordest che rischia di sparire.