Con la pronuncia 267/2012 della Corte d’Appello di Roma è stata di fatto modificata la normativa sul contratto a termine. Secondo questa sentenza, i lavoratori che ottengono la conversione a tempo indeterminato di un contratto a termine hanno diritto a due risarcimenti: l’indennità sostitutiva prevista dal «Collegato lavoro», e un ulteriore risarcimento, pari alle retribuzioni che il dipendente avrebbe percepito a partire dalla data di deposito del ricorso giudiziale.
La legge e la giurisprudenza costituzionale tramite l’articolo 32, comma 5 della legge 183/2010 (il Collegato lavoro) appunto, ha introdotto nell’ordinamento un principio innovativo: se un lavoratore ottiene la trasformazione a tempo indeterminato di un contratto a termine, non ha più diritto a ottenere un risarcimento del danno pari alle retribuzioni che avrebbe percepito dalla fine del rapporto sino alla sentenza. Al posto di questa somma, il Collegato lavoro riconosce solo il diritto di ricevere un’indennità di importo variabile tra le 2,5 e le 12 mensilità. La legge specifica anche che l’indennità è omnicomprensiva, quindi il suo godimento esclude qualsiasi altro risarcimento.
Subito dopo l’approvazione del Collegato lavoro, alcuni Tribunali (ad esempio Busto Arsizio e Napoli) hanno provato a interpretare diversamente la norma, sostenendo che la nuova indennità sostitutiva si sarebbe dovuta sommare al risarcimento calcolato secondo le vecchie regole. Queste pronunce hanno avuto una portata limitata, perché la maggioranza dei Tribunali ha interpretato correttamente l’istituto, riconoscendo che in caso di conversione del contratto a termine spetta al lavoratore solo l’indennità introdotta dal Collegato lavoro.
È poi accaduto un fatto che avrebbe dovuto risolvere qualsiasi dubbio residuo. Nel gennaio del 2011, la Corte di Cassazione ha sollevato dei dubbi sulla costituzionalità della norma, chiedendo alla Corte Costituzionale di chiarire se l’introduzione di un tetto massimo al risarcimento fosse compatibile con le norme costituzionali. La Consulta, con la sentenza n. 303 del 9 novembre 2011, ha escluso ogni possibile incostituzionalità delle norme del Collegato lavoro, evidenziando che queste non producono alcuna ingiusta penalizzazione, e ricordando che un meccanismo analogo viene già applicato da decenni anche per altre situazioni (i licenziamenti nelle imprese fino a 15 dipendenti). La sentenza della Consulta ha chiarito un altro fatto importante: è stato precisato che l’indennità prevista dal Collegato lavoro assorbe ogni altra possibile rivendicazione economica del lavoratore (come dice la pronuncia «..il danno forfettizzato dall’indennità copre il periodo che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza»).
Di fronte a una posizione così chiara e lineare, sembrava destinato a cessare qualsiasi contrasto interpretativo in merito all’indennità sostitutiva. La previsione è oggi smentita dalla sentenza della Corte d’Appello di Roma, che in maniera del tutto isolata (le altre Corti territoriali stanno utilizzando un criterio conforme a quello della Corte Costituzionale, e anche gli altri tre collegi giudicanti della Corte romana sono su posizioni diverse) ritiene di non applicare le regole contenute nella legge e convalidate dalla Corte Costituzionale.
Secondo questa Corte, l’indennità prevista dal Collegato non è omnicomprensiva, ma si somma a un ulteriore risarcimento, pari alle retribuzione perse nel periodo successivo alla data di deposito del ricorso. Ma come giustifica la sentenza della Corte d’Appello questa interpretazione? La pronuncia – con apprezzabile sincerità, ma anche con sconcertante disattenzione per il principio di legalità – sostiene che questa ricostruzione serve a non penalizzare eccessivamente il lavoratore. Nessun cenno viene fatto alla necessità di applicare la legge, a prescindere dalle proprie preferenze personali. È auspicabile che la questione arrivi quanto prima in Cassazione, e che in quella sede i giudici della Suprema Corte rimettano le cose al loro posto, evitando la pericolosa tendenza tendenza di alcuni loro colleghi (pochi, per fortuna) a comportarsi da legislatori.
Fonte: ilsole24ore.it